L’Europa tra delusione e speranza [3/3]

di Alain de Benoist
da diorama.it
 
 
Fra questi autori figurano Ulrich Beck e Edgar Grande, i cui punti di vista sono a volte completamente divergenti dai nostri (essi riducono l’identità europea al fatto che essa è portatrice di “valori universali”), ma meritano comunque di essere esaminati. Beck e Grande si pronunciano nettamente a favore di un “impero europeo”, pur affermando che l’Europa deve dotarsi di una nuova identità di tipo “cosmopolita”[lxvii]. Dato che il termine potrebbe agevolmente servire da respingente, bisogna precisare che ciò che i due autori tedeschi chiamano “cosmopolitismo” non si confonde esattamente con quel che la maggior parte delle volte si intende con tale parola. Con l’espressione “Europa cosmopolita”, essi intendono designare un’Europa post-egemonica, che non si fondi sul “modello di un demos europeo o di un monopolio statale europeo in senso convenzionale – cioè sull’omogeneizzazione e l’uniformità”[lxviii]. “Il cosmopolitismo”, scrivono, “combina una stima per la differenza e l’alterità con la preoccupazione di concepire nuove forme democratiche di dominio politico al di là degli Stati nazionali”[lxix]; è dunque una forma particolare di trattamento sociale dell’alterità culturale, fondata sul principio di esclusione additiva (“et-et”). Beck e Grande badano inoltre a distinguere nettamente questo “cosmopolitismo” da tre altre forme di trattamento sociale dell’alterità: prima di tutto, ovviamente, il nazionalismo, che tende ad abolire le differenze all’interno in una prospettiva egualitaria ma ad esagerarle o renderle più rigide all’esterno in una prospettiva il più sovente gerarchica, ma anche l’universalismo, sostanziale o procedurale, che mira a stabilire un’eguaglianza formale svalutando la varietà umana a profitto di una sola ed unica norma (al di là di ciò che li distingue, gli individui e i popoli sono posti come essenzialmente identici), e il multiculturalismo postmoderno, che tende a fare della dissomiglianza un assoluto. Essi concludono che “un’Europa cosmopolita sarebbe innanzitutto un’Europa della differenza, di una differenza accettata e riconosciuta”[lxx].
Beck e Grande affermano peraltro che “l’Europa può definirsi solo sotto forma di un progetto politico”[lxxi]. Scrivono, inoltre, che “l’Europa cosmopolita deve saper resistere a due tentazioni. La prima è la seguente: l’identità etnica è un’essenza, una natura, qualcosa di dato una volta per tutte, di concreto e di obiettivo. E la tentazione inversa consiste nel partire dal principio che la differenza etnica non è altro che un’illusione”[lxxii]. Quest’ultima osservazione si colloca all’interno di una critica delle “contraddizioni tipiche” dell’“universalismo cieco ai colori”: “Da un lato, l’alterità dell’altro è superata poiché egli è considerato un eguale e trattato in quanto tale; per un altro verso, ciò finisce col far negare la realtà dell’altro – colui o colei che non vuole abbandonare la posizione dell’alterità è escluso/a […] Essere ciechi alla differenza significa perpetuare il dominio culturale”[lxxiii].

“Il concetto d’impero”, scrivono Beck e Grande, “possiede perlomeno tre carte vincenti. In primo luogo, consente di intravedere nuove forme d’integrazione politica al di là degli Stati nazionali e libera l’analisi del dominio politico dalla sua fissazione sullo Stato. Secondo punto forte: parlare d’impero apre gli occhi sull’asimmetria realmente esistente del potere degli Stati, in altre parole la fa finita con la finzione di una eguaglianza fra gli Stati sul piano della sovranità. Terzo vantaggio: storicizza la separazione tra il nazionale e l’internazionale, e rimette in discussione l’assiomatica che ancora regge il pensiero e l’azione sia in politica sia nelle scienze politiche”[lxxiv]

Qui però si pone un problema particolare. Le frontiere esterne degli imperi, contrariamente a quelle delle nazioni, sono aperte e flessibili. Tuttavia, nel caso dell’Europa, anche un impero europeo deve fissarsi delle frontiere. È un paradosso al quale Beck e Grande sono sensibili, ancorché parteggino per un’Europa “portatrice di valori universali”. Scrivono: “Ogni impero tende nel fondo di se stesso all’estensione, all’abolizione delle frontiere – e l’Impero europeo anche. Ma in quanto Impero europeo, esso non può ambire a una dimensione universale, e nel contempo deve stabilire le sue stesse frontiere. Queste frontiere possono variare con l’andar del tempo, possono essere politicamente contingenti, ma, comunque stiano le cose, bisogna che esistano”[lxxv]. Dinanzi a questa “contraddizione fondamentale”, l’imbarazzo dei due autori è palpabile.

Beck e Grande chiamano dunque “impero” quell’Europa “cosmopolita” che auspicano, sottolineando – beninteso – che si tratterebbe di un impero senza alcun germe d’imperialismo: “L’Europa è l’impero senza potenza egemonica”[lxxvi]. Un partenariato che associasse l’Unione europea alla Russia potrebbe successivamente condurre ad un’“Europa dei due imperi”[lxxvii], attendendo la messa a punto di una struttura più ampia che interessasse il continente euroasiatico nel suo insieme.

Ma ovviamente queste sono prospettive lontane. Nell’immediato, come uscire dal vicolo cieco nel quale “l’Europa” si è rinchiusa? Per il momento, sembrano esserci soltanto tre possibilità: proseguire sulla stessa strada, di cui adesso conosciamo i risultati; ripiegare sulle sole strutture nazionali, come auspicano i sovranisti, e in questo caso la “costruzione” europea si ridurrebbe a semplici iniziative intergovernative in alcuni ambiti specifici; oppure sforzarsi di dare all’Unione europea vere istituzioni politiche mettendo fine una volta per tutte all’equivoco sulle finalità. Ma se si sceglie quest’ultima opzione, ci si rende subito conto che essa – per usare un eufemismo – non trova l’unanimità degli Stati membri.

La soluzione per uscire dallo stallo potrebbe consistere nel fare un passo indietro per poi poterne fare due in avanti. Già qualche anno fa Henri de Grossouvre aveva formulato un progetto di asse Parigi-Berlino-Mosca[lxxviii], prospettiva stimolante che però sinora non ha potuto concretizzarsi, soprattutto a causa dell’ascesa al potere di Angela Merkel in Germania e di Nicolas Sarkozy in Francia. Il medesimo autore ha più di recente proposto la costituzione di un “nucleo duro”, o più esattamente di un’“avanguardia”, che raggruppi soltanto i paesi decisi a procedere sulla via dell’approfondimento delle istituzioni politiche. Questa avanguardia assocerebbe la Francia, la Germania, il Belgio, il Lussemburgo, l’Ungheria e l’Austria. Scrive Grossouvre: “L’Europa si trova al bivio. O un numero ristretto di paesi rilancia, in maniera credibile, la costruzione europea e l’Europa può di nuovo esistere e pesare, o l’Europa viene progressivamente emarginata, economicamente, politicamente e demograficamente”[lxxix].

Henri de Grossouvre sottolinea a questo proposito che la linea divisoria tra sostenitori e avversari dell’Europa-potenza attraversa tutti gli spartiacque politici abituali e che non può esserci un’avanguardia operativa senza la Francia e la Germania, paesi che, rappresentando da soli 142 milioni di abitanti e il 41% del bilancio dell’Unione, costituiscono il “cuore carolingio” dell’Europa danubiana[lxxx].

Anche in questo caso, l’idea è interessante. Corrisponde del resto a varie proposte avanzate in passato. Già a suo tempo Paul-Henri Spaak parlava degli Stati membri decisi ad “andare più in fretta e più lontano”. Sin dal 1975, il rapporto Tindemans sosteneva che “gli Stati che sono in grado di farlo hanno il dovere di andare avanti”. Quasi vent’anni più tardi, nel 1994, i deputati tedeschi Wolfgang Schäuble e Karl Lamers avevano lanciato l’idea di un “nucleo duro di paesi desiderosi di integrarsi e di cooperare”, senza tuttavia ottenere la benché minima risposta dal governo Balladur[lxxxi]. L’anno seguente, Hervé de Charrette evocava la possibilità che si creasse un polo “più integrato” fondato “su un gruppo di paesi raccolti attorno alla coppia franco-tedesca”. Lo stesso anni, Valéry Giscard d’Estaing, nel suo Manifesto per una nuova Europa federativa, parlava di una “Europa a volontà politiche differenziate”. Nel maggio 2000, prendendo la parola all’Università Humboldt di Berlino, Joschka Fischer, all’epoca ministro tedesco degli Esteri, aveva a sua volta perorato la causa di un “centro di gravità formato da alcuni Stati capaci […] di progredire sulla strada dell’integrazione politica” e che convenissero fra di loro di gettare “le basi di un nuovo trattato europeo”, formula alla quale la Francia, di nuovo, non aveva dato seguito[lxxxii]. Nello stesso periodo, Jacques Delors dichiarava: “Se si vuole perseguire l’obiettivo di un’Europa politica, bisogna consentire a questa avanguardia di costituire quella che io chiamo una federazione degli Stati nazionali”[lxxxiii]. Altri progetti hanno evocato una costruzione europea a partire da “cerchi concentrici”, in cui il cerchio più stretto definirebbe un insieme veramente integrato sul piano politico e gli altri degli insiemi più larghi, soggetti ad obblighi meno cogenti.

“L’incapacità di accettare gli scenari istituzionali dell’avanguardia o del nocciolo duro proposto da parecchie personalità francesi o tedesche (progetto Schäuble-Lamers, proposta Delors di federazione di Stati nazionali, proposta Fischer di centro di gravità del maggio 2000) nella quale si sono trovati, dal 1994 in poi, i governi francesi, di sinistra o di destra, ha accresciuto il disincanto dei filoeuropei francesi”, ha osservato recentemente Christian Lequesne[lxxxiv].

In questi ultimi anni si sono tuttavia fatte sentire nuove voci che vanno nella stessa direzione. Nel 2004, Günther Hofmann ha scritto: “Non si potrà fare altrimenti: due, tre o quattro, se non cinque o sei, governi devono semplicemente prendere l’iniziativa di una politica che rifletta ciò che è specificamente “europeo””[lxxxv]. Nel 2005, anche l’economista René Passet si è pronunciato per la creazione di un “nocciolo duro comunitario europeo”: “Il ritorno allo spirito delle origini, che non può essere effettuato dal grande numero, alcune nazioni possono realizzarlo”[lxxxvi]. Dal canto suo, Jacques Delors ha riaffermato la sua posizione: “Ogni volta che si propone un passo avanti verso l’Europa politica, ci si obietta che su questi argomenti non c’è unanimità. È un motivo per perorare la causa della differenziazione […] A quando la prima iniziativa per la marcia in avanti di un gruppo di Stati membri sull’UEM, sul sociale, sull’energia? Per quanto mi riguarda, io rifiuto un’Europa che avanzi esclusivamente al ritmo dei meno impegnati e degli euroscettici”[lxxxvii].

Tecnicamente, questa possibilità non ha niente di utopico. Già da tempo, del resto, i paesi dell’Unione europea non avanzano più allo stesso passo. L’Inghilterra e la Danimarca si sono viste concedere il diritto di non applicare taluni aspetti dei trattati conclusi dagli altri Stati membri. Lo “spazio Schengen” è più piccolo di quello dell’Unione, giacché associa, dal maggio 2005, solo alcuni Srati membri, e lo stesso accade con la zona euro, in cui parecchi membri dell’Unione non sono ancora entrati. Viceversa, il Consiglio d’Europa associa non meno di 46 paesi.

Non si tratterebbe quindi di cercare di sostituire l’Unione europea, ma di creare al suo interno, e tuttavia separatamente da essa, una struttura di approfondimento destinata a chi vuole andare oltre, essendo inteso che quella struttura, all’inizio incentrata attorno allo spazio renano, potrebbe poi estendersi a tutti gli altri paesi che accettassero di condividerne le regole. Una simile struttura non potrebbe però ovviamente limitarsi a sfruttare le possibilità di “cooperazione rafforzata” che già esistono all’interno dell’Unione, nella misura in cui quest’ultima costituisce solamente una modalità intergovernativa di intervento in ambiti molto limitati che non fanno parte delle competenze esclusive dell’Unione[lxxxviii].

Il problema è che la volontà politica continua a fare difetto, e che chi è stato incapace di mettere in opera l’asse Parigi-Berlino-Mosca a quanto pare non ha neanche l’intenzione di creare un altro “nocciolo duro”. “La creazione di un’avanguardia per costituire una massa critica”, scrive Hajnalka Vincze, “può apportare reali risposte solo se questo gruppo “pioniere” è capace di fare pienamente proprie le priorità politico-strategiche che gli toccano […] Gli Stati dell’avanguardia devono immediatamente dar prova di una politica responsabile in termini di sovranità, che non tollera né l’accecamento dell’ingenuità pacifista né i riflessi condizionati di subordinazione atlantista”[lxxxix]. Bisogna ammettere che ne siamo ancora lontani. Ma perlomeno questa è una pista da seguire.

Già Nietzsche diceva: “L’Europa si farà solo al margine della tomba”.

Alain de Benoist

[i] “Le Nouvel Observateur”, 15 dicembre 2005.

[ii] Cfr. Jean-Michel Vernochet (a cura di), Manifeste pour une Europe des peuples, Editions du Rouvre, Paris 2007.

[iii] Cfr. Richard N. Coudenhove-Kalergi, Kampf um Paneuropa, 3 voll., 1925-28 ; Die europäische Nation, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1953.

[iv] Cfr. David Mitrany, A Working Peace System, Quadrangle Books, Chicago 1966.

[v] Su Jean Monnet, cfr. in paricolare Eric Branca, De Gaulle-Monnet ou le duel du siècle, in “Espoir”, 117, novembre 1998.

[vi] Cfr. Claudio Giulio Anta, Les pères de l’Europe. Sept portraits, PIE-Peter Lang, Bruxelles 2007, il quale ricorda l’itinerario di Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Paul-Henri Spaak, Altiero Spinelli e Jacques Delors.

[vii] Prefazione a Bernard Dumont, Gilles Dumont e Christophe Réveillard (a cura di), La culture du refus de l’ennemi. Modérantisme et religion au seuil du XXIe siècle, Presses universitaires de Limoges, Limoges 2007, pag. 12.

[viii] Jean-Marie Mayeur, in Des partis catholiques à la démocratie chrétienne, XIXe – XXe siècle, Armand Colin, Paris 1980, pag. 227.

[ix] Christophe Réveillard, Les catholiques et la sécularisation : le rôle des “constructeurs de l’Europe”, in Bernard Dumont, Gilles Dumont et Christophe Réveillard (a cura di), op. cit., pag. 54.

[x] Corinne Gobin, Le discours programmatique de l’Union européenne, in “La légitimation du discours économique”, numero speciale di “Sciences de la société”, Toulouse, février 2002.

[xi] François Bayrou, Pas d’Europe sans fédéralisme, in “Libération”, 14 giugno 2001.

[xii] Jean-Claude Eslin, Des propositions françaises pour l’Europe?, in “Esprit”, febbraio 2006, pag. 44. Cfr. anche Anne-Marie Le Pourhiet, Qui veut de la postdémocratie?, in “Le Monde”, 11 marzo 2005.

[xiii] Cfr. Catherine de Wenden, Citoyenneté, nationalité et immigration, Arcantère, Paris 1987; Yasemin Nuhoglu Soysal, Limits of Citizenship. Migrants and Postnational Membership in Europe, Chicago University Press, Chicago 1994.

[xiv] René Passet, Au-delà du oui et du non, in “Libération”, 15 marzo 2005, pag. 35.

[xv] Dominique Schnapper, Les nations et la citoyenneté européenne, in “Cause commune”, primavera 2007, pag. 70.

[xvi] Chantal Delsol, Quelle Europe voulons-nous?, in “Le Figaro”, 31 marzo 2005.

[xvii] “Si rendeva così platealmente palese, attraverso questo episodio simbolico, il vero significato dell’allargamento: una capitolazione senza condizioni degli europei davanti agli Stati Uniti, giacché gli ultimi ammessi si sono dimostrati i più preoccupati di fare immediato atto di sottomissione verso l’impero americano» (Jacques Julliard, L’Europe, ce machin!, in “Le Nouvel Observateur”, 9 gennaio 2003, pag. 34).

[xviii] Cfr. Werner Weidenfeld, Erweiterung ohne Ende? Europa als Stabilitätsraum strukturieren, in “Internationale Politik”, 2000, 8, pagg. 1-10.

[xix] Jean-Louis Bourlanges, Ankara et l’Union européenne : les raisons du “non”, in “Politique internazionale”, autunno 2004, pagg. 59-60. “L’adesione turca”, aggiunge Bourlanges, rallegra nel contempo gli intergovernativisti, che desiderano strangolare l’idea federale, gli atlantisti, ben decisi a silurare l’idea di un’Europa indipendente dagli Stati Uniti, i multiculturalisti, ossessionati dallo spettro di una guerra di civiltà, il grande patronato, sedotto da una triplice promessa di esportazione, delocalizzazione e immigrazione, e persino certi adepti dell’Europa-potenza, ben contenti di poter opporre i ragazzi ben piantati del Bosforo ai woodstockiani complessati del Nord Europa” (ibidem, pagg. 45-46). Va ricordato peraltro che nel corso della sua campagna elettorale Nicolas Sarkozy si era pronunciato a favore della soppressione dell’articolo 88-5 della Costituzione, adottato dai parlamentari riuniti a Congresso a Versailles nel 2005, che prevede di sottoporre a referendum ogni nuovo allargamento dell’Unione europea dopo l’adesione della Romania, della Bulgaria e della Croazia. L’ingresso della Turchia nell’Unione, al quale il presidente francese dichiara di opporsi ma che ha il sostegno del suo ministro degli Esteri, Bernard Kouchner, potrebbe così essere votato dal Parlemento senza che il popolo venga consultato.

[xx] Dominique Strauss-Kahn, in “Le Meilleur des mondes”, 2, autunno 2006.

[xxi] Cf. Christophe Réveillard, Emmanuel Dreyfus e Dominique Barjot, Penser et construire l’Europe, du traité de Versailles au traité de Maastricht (1919-1992), Sedes, Paris 2007; Nicolas Roussellier (a cura di), L’Europe des traités, de Schuman à Delors, CNRS Editions, Paris 2007.

[xxii] Philippe Forget, Le traité européen : une Constitution postiche et liberticide, in “La Raison”, maggio 2005.

[xxiii] «Se si fosse voluta innalzare una politica economica al rango di dogma costituzionale […] non ci si sarebbe comportati diversamente […] Dal punto di vista economico, non è della costruzione dell’Europa che si tratta, ma del neoliberalismo elevato al rango di religione ufficiale», ha potuto scrivere René Passet, art. cit.

[xxiv] Cfr. a questo proposito Frédéric Lordon, Le mensonge social de la Constitution, http://frederic.lordon.perso.cegetel.net//Textes/Textes_Interventions/Textes_TCE/Mensonge%20social.pdf.

[xxv] Sul progetto di Carta dei diritti fondamentali, cfr. l’analisi critica dettagliata pubblicata nel 2003 nel Recueil Dalloz da Gilles Lebreton, preside onorario della Facoltà degli affari internazionali dell’Università di Le Havre, sotto il titolo La fin des droits de l’homme et du citoyen? (“Chronique”, pag. 2319).

[xxvi] Su questo punto, Laurent Cohen-Tanugi non ha torto quando scrive che “sono state le carenze economiche, sociali e politiche a provocare alla fine la bocciatura, e non l’inverso” (La fin de l’Europe?, in “Commentaire”, inverno 2005-2006, pag. 807).

[xxvii] Valéry Giscard d’Estaing, La boîte à outils du traité de Lisbonne, in “Le Monde”, 27 ottobre 2007.

[xxviii] Cfr. Paul-Marie Coûteaux, Relation d’une supercherie, in “La Nef”, luglio-agosto 2007, pagg. 16-17.

[xxix] Anne-Marie Le Pourhiet, testo del 10 novembre 2007. Cfr. anche Paul-Marie Coûteaux, NCE : le coup d’Etat, in “La Lettre de l’indépendance”, novembre 2007, pag. 1

[xxx] Ulrich Beck et Edgar Grande, Pour un empire européen, Flammarion, Paris 2007, pag. 314.

[xxxi] Jacques Delors, in “Le Monde”, 19 janvier 2000.

[xxxii] Cfr. Jordis von Lohausen, Mut zur Macht. Denken in Kontinenten, Vowinckel, Berg am See 1979. Cfr. anche Carl Schmitt, Terre et Mer. Un point de vue sur l’histoire mondiale, Labyrinthe, Paris 1985; Le Nomos de la Terre, Presses Universitaires de France, Paris 2001

[xxxiii] François Bayrou, art. cit.

[xxxiv] Jean-Louis Bourlanges, art. cit., pag. 50.

[xxxv] Dibattito con Paul Thibaud, in “Le Monde”, 11-12 novembre 2007, pag. 15.

[xxxvi] Jean-Louis Bourlanges, art. cit., pag. 42.

[xxxvii] Ibidem, pag. 54.


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